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La scatola nera di Darwin. Sfida biochimica all'evoluzione

MICHAEL J. BEHE

Recensione pubblicata su il Domenicale. Settimanale di cultura, anno VI, n. 42, Milano 20-10-2007, p. 5

Adesso smetteranno di scimmiottare? Esce anche in italiano La scatola nera di Darwin, il classico del biochimico statunitense Michael J. Behe che sfida l’evoluzionismo a suon di scienza seria. E che, empiricamente, dimostra l’esistenza di un progetto intelligente

Dopo il viaggio compiuto dal dicembre 1831 all’ottobre 1836 a bordo del Beagle, il naturalista inglese Charles R. Darwin formulò l’ipotesi secondo cui gli esseri viventi si evolvono per selezione naturale dovuta al caso. Inizialmente (certo conscio della bomba che aveva fra mani) si limitò a predicarla di piante e animali, ma poi, pubblicando nel 1871 La discendenza dell’uomo e la selezione sessuale, applicò il tutto anche all’essere umano, in fin dei conti solo un altro animale fra tanti animali.

Selezione naturale e caso: questi i meccanismi che presiedono l’intero universo, vita compresa. Né disegno né progetto, nessuna intelligenza e nemmeno alcuna volontà. Ha quindi ragione da vendere Richard Dawkins – il più gettonato tra i divulgatori neodarwinisti – a parlare, sin dal titolo di un suo famoso libro del 1986, di un orologiaio cieco. Ora, questi due pilastri del darwinismo (e della “teoria sintetica” neodarwinista attuale, ossia la riformulazione del concetto a fronte della genetica) sono però fra loro contradditori, ed entrambi e ognuno lo sono pure rispetto al terzo e ultimo fondamento, la postulazione di tempi enormi affinché tutto si svolga.

La selezione affidata a un non meglio identificato concetto di “natura” è infatti pur sempre una scelta, e piuttosto oculata, anche se (con Dawkins) cieca, se è vero – come dice l’ipotesi evoluzionistica – che il processo favorisce le caratteristiche più adatte alla vita, penalizzando fino all’estinzione quelle non appropriate, meno forti, più deboli. La scelta – qualsiasi scelta – è però appunto il contrario esatto della casualità.

Quanto ai tempi abnormi tirati in ballo per la presunta evoluzione (e utilissimi a dilatare talmente la questione da renderla non esperibile, sfuggente all’indagine empirica, inadatta a qualsiasi verifica rigorosa a norma di metodo scientifico), sono l’opposto esatto di quanto serve a un essere vivente che – come dice il darwinismo – se non sviluppa le caratteristiche che più lo rendono adatto alla vita si estingue. Come tira, infatti, costui a campare lungo i milioni di anni dell’evoluzione se non si ciba, se non figlia, se non può difendersi da predatori, intemperie e iella in attesa che i suoi organi si facciano adatti?

Sono quisquilie come queste quelle con cui l’ipotesi evoluzionistica, darwinista classica o neo che sia, deve fare anzitutto i conti, ma che invece ignora dando per scontato proprio quanto va invece dimostrato. Né la retorica darwinista guadagna punti se la scienza – come fa da un po’ – si getta a capofitto fra i cromosomi snobbando i fenotipi, quei viventi in carne e ossa, o fronde e frasche, che stanno lì grandi e grossi e in bella vista (giganteschi pure nel caso di organismi unicellulari, a paragone di geni e materiali citoplasmatici vari), viventi complessi e ricchi e spesso pure empiricamente diversi rispetto a certe affermazioni “teoriche” fatte solo al microscopio, le quali oramai scordano, tra una provetta e un vetrino, di guardare in faccia animali e piante.

La sfida biochimica
Cose così, accompagnate da ampia documentazione e meditazione, le dice da una vita anche ai genetisti uno che il genetista lo fa di professione, uno che in materia ha pure all’attivo scoperte fondamentali. Giuseppe Sermonti, che però, siccome alle palesi aporie dell’evoluzionismo non ci sta, è confinato, nonostante la scienza di cui è capace, nel limbo dei reprobi. Firma lui, Sermonti, l’introduzione al libro – fondamentale – di Michael J. Behe, La scatola nera di Darwin. La sfida biochimica all’evoluzione.

Qualche dato saliente sul volume. Primo. In italiano lo pubblica Alfa & Omega (tel. 0934/516692 o 02/3502233), braccio editoriale dell’omonima associazione evangelicale di Caltanissetta. Protestanti, cioè: protestanti della bella scuola di Jonathan Edwards negli Stati Uniti del Settecento e di Marvin Olasky (quello del “conservatorismo compassionevole”) in quelli di oggi. Bello perché l’autore, Behe, è cattolico. Più bello ancora perché il suo editore italiano annuncia, sempre su questi temi, l’uscita di due testi di William A. Dembski, matematico, fra le punte di diamante del famoso Discovery Institute di Seattle, nello Stato di Washington, fondato nel 1990.

Secondo. La scatola nera di Darwin uscì originariamente nel 1996 e fu subito un classico: la versione italiana traduce l’edizione 2006, arricchita di una postfazione che recensisce un decennio di controversie e di sviluppi.

Terzo. L’autore, Behe, è uno specialista nel campo tipico del neodarwinismo più à la page, cellule, molecole, genomi. Insegna Scienze biologiche alla Lehigh University di Bethlehem, in Pennsylvania.

Quarto. Il titolo del libro ricorda questo. Ogni giorno usiamo con nonchalance un mucchio di cose che non sappiamo minimamente come e perché funzionino. Anzi, più sono complesse, e talora complicate, più sono diffuse. Cioè? Cioè ogni dì, e fortunatamente, diamo per scontato, per acquisito e per normale una perizia, una precisione, una competenza e una fatica di cui non abbiamo idea, e seguiamo indicazioni e tracciati di esperti che ignoriamo, il cui lavoro altamente specializzato rende migliore e più adatto a noi il mondo in cui stiamo.

Non è un caso (Darwin permettendo). Behe è stato infatti il primo scienziato a formulare compiutamente il concetto di “progetto intelligente” per l’universo, il quale così da caos casuale si fa cosmo ordinato. Oggi Behe è il più noto propugnatore di quel concetto, alla testa (se non altro per fama e carisma) dei suoi serissimi colleghi del Discovery Institute, quell’organismo privato di ricerca il cui Center for Science and Culture ha fatto del “progetto intelligente” una bandiera, dando persino origine a quello che alcuni non esitano a definire un “movimento”. Certo, l’espressione Intelligent Design saltò fuori, negli USA, nel 1987 durante il processo Edwards v. Aguillard (i darwinisti trascinano sempre in tribunale i propri avversari, così fu allora e così è stato di nuovo nel 2005 con il caso Kitzmiller v. Dover Area School District). Da lì nel 1989 l’espressione rimbalzò in un libro per le superiori, Of Pandas and People: The Central Question of Biological Origins di Percival Davis e Dean H. Kenyon, alla cui edizione riveduta del 1993 collaborò pure Behe. Ma è stato La scatola nera di Darwin a fare il salto di qualità.

Occhio per occhio
Se, negandosi per definizione alla verifica scientifica, l’evoluzionismo è una ipotesi, esso vale né più né meno di altre ipotesi, “progetto intelligente” compreso. Ma non basta. Behe ha infatti il merito di avere fondato scientificamente quella che appunto solo una ipotesi fra le tante non è. Scandalizzerà alcuni, ma il “progetto intelligente” è più scientifico dell’evoluzionismo. Si fonda infatti su 1) fenomeni 2) riscontrabili nella realtà 3) e osservabili direttamente. Obbedisce cioè al metodo scientifico, quello induttivo fondato a suo tempo da Galileo Galilei e, giustamente, “bibbia” di chiunque voglia fare scienza. Quello che invece appunto non fa (lo notava raffinatamente anche un evoluzionista convinto qual era Stephen Jay Gould) il darwinismo, classico e neo.

In natura, dice Behe, esistono meccanismi che non funzionerebbero se una sola delle parti che ne costituisce l’ordito e che interagiscono per far funzionare correttamente l’insieme mancasse o facesse cilecca, e che quindi necessitano di un positore il quale, con decisione e movimento unitari, li assembli complessivamente. La scatola di Darwin la definisce «complessità irriducibile» e ne offre esempi e spiegazioni. Il concetto di un progettista intelligente dei meccanismi dell’universo nasce da qui. Il progettista di un occhio di una delle molte specie viventi, per esempio. L’occhio non è meno sofisticato di una macchina fotografica e certo non deriva da un occhio “più semplice” per il solo fatto che il tempo scorre. Abbisogna di un pensiero. Anche perché occhi “più semplici” non ve ne sono.

Marco Respinti

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